Intervista al cardinale Giuseppe Betori
Cardinale, nel Suo discorso introduttivo all’Adorazione Eucaristica di apertura alla Visita Pastorale, ha ricordato come al centro di tutto – compresa la Sua venuta nel Vicariato di Pontassieve – ci sia la Parola di Dio, sottolineando in questo senso la vocazione missionaria della Chiesa. Pontassieve, che Lei si accinge a visitare, è un paese dove negli ultimi decenni sono venute a risiedere numerose giovani famiglie che spesso si avvicinano alla Comunità Parrocchiale soprattutto in occasione dei sacramenti dei propri figli. Pur registrando un calo delle unioni matrimoniali – in particolare quelle celebrate col Sacramento in chiesa – il numero dei bambini e ragazzi in cammino verso Battesimo, Prima Comunione e Cresima, non è calato altrettanto proporzionalmente. E’ proprio a queste famiglie che le nostre Comunità Parrocchiali vorrebbero aprire il proprio cuore missionario, per annunciare in maniera più incisiva la Parola e per testimoniare l’Amore di Dio Padre. Quali parole di incoraggiamento vorrebbe rivolgere a queste famiglie che richiedono un’educazione alla fede per i propri figli? Quale significato ha la Visita Pastorale per tutta la cittadinanza e il territorio di Pontassieve?
Il rapporto con le famiglie favorito dalla proposta formativa fatta ai fanciulli e ai ragazzi è ancora un momento di contatto tra la Chiesa e la gente, anche quella meno integrata nella vita ecclesiale ma ancora sensibile ai bidogni educativi e di socializzazione dei figli. Ritengo questo un momento fondamentale per una parrocchia che voglia aprirsi al territorio, momento che va vissuto con quell’apertura che deve caratterizzare tutto l’impegno pastorale della comunità e a cui Papa Francesco ci richiama con tanta insistenza.
Permettete, anzitutto che vi richiami le parole che il Papa dedica alla parrocchia nella sua esortazione Evangelii gaudium: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie” [Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 26] Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione» (n. 28). Sono parole che danno una chiara fisionomia di ciò che dobbiamo essere e di come dobbiamo entrare in contatto con la società e la gente attorno a noi.
All’interno di questa visione un atteggiamento fondamentale deve essere quello dell’accoglienza. Nessuno deve trovare ostacoli da parte nostra, tutti devono sentirsi accolti. Ogni occasione deve essere colta per stabilire un rapporto e avviare un dialogo. Di nuovo mi affido alle parole del Papa:
«La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole seguire una mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa. Ma ci sono altre porte che neppure si devono chiudere. Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta di quel sacramento che è “la porta”, il Battesimo. L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (n. 48).
Nella lettera di indizione della Visita Pastorale, Lei spiega con chiarezza le ragioni e la ricchezza di una pastorale integrata sempre più estesa a livello di Diocesi. A più di 20 anni di distanza dalla nascita dell’Unità Pastorale di Pontassieve, l’incontro di oggi con il nostro Vescovo è per noi una dono di cui ringraziare il Signore e insieme uno strumento per verificare il cammino percorso finora. Quale stile consiglia di mantenere nella nostra Unità Pastorale per garantire relazioni sempre più vere fra i vari soggetti della Comunità?
La prospettiva dell’integrazione è un orizzonte doveroso per la pastorale del presente e del futuro. Prima ancora che dettata da motivazioni legate alla diminuzione del clero e quindi alla impossibilità per una diocesi di offrire guide a tutte gli enti parrocchiali esistenti, vorrei che leggessimo questa esigenza come una conseguenza di quella prospettiva sinodale, cioè di cammino insieme, che è scaturita dalla visione della Chiesa proposta dal Concilio Vaticano II e che Papa Francesco ripropone con forza, non da ultimo nel discorso che egli ha tenuto nella nostra Cattedrale al Convegno della Chiesa in Italia il 10 novembre 2015, Sono parole molto realistiche che si misurano con le nostre debolezze: «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. “Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (Evangelii gaudium, 227). […] Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». La prospettiva, come vedete, va ben oltre il mettere insieme delle istituzioni religiose, ma di pensare in modo integrato tra comunità ecclesiali e tra Chiesa e società».
A queste parole del Papa aggiungo quelle di un documento dei vescovi italiani dedicato alla parrocchia: «L’attuale organizzazione parrocchiale, che vede spesso piccole e numerose parrocchie disseminate sul territorio, esige un profondo ripensamento. Occorre però evitare un’operazione di pura “ingegneria ecclesiastica”, che rischierebbe di far passare sopra la vita della gente decisioni che non risolverebbero il problema né favorirebbero lo spirito di comunione. È necessario peraltro che gli interventi di revisione non riguardino solo le piccole parrocchie, ma coinvolgano anche quelle più grandi, tutt’altro che esenti dal rischio del ripiegamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che è finito il tempo della parrocchia autosufficiente. Per rispondere a queste esigenze la riforma dell’organizzazione parrocchiale in molte diocesi segue una logica prevalentemente “integrativa” e non “aggregativa”: se non ci sono ragioni per agire altrimenti, più che sopprimere parrocchie limitrofe accorpandole in una più ampia, si cerca di mettere le parrocchie “in rete” in uno slancio di pastorale d’insieme. Non viene ignorata la comunità locale, ma si invita ad abitare in modo diverso il territorio, tenendo conto dei mutamenti in atto, della maggiore facilità degli spostamenti, come pure delle domande diversificate rivolte oggi alla Chiesa e della presenza di immigrati, ai quali si rivolgono i centri pastorali etnici che stanno sorgendo in molte città. Così le nuove forme di comunità potranno lasciar trasparire il servizio concreto all’esistenza cristiana non solo a livello ideale, ma anche esistenziale concreto. A questo mirano pure i progetti attuati e in via di attuazione in diverse diocesi che vanno sotto il nome di “unità pastorali”, in cui l’integrazione prende una forma anche strutturalmente definita. Con le unità pastorali si vuole non solo rispondere al problema della sempre più evidente diminuzione del clero, lasciando al sacerdote il compito di guida delle comunità cristiane locali, ma soprattutto superare l’incapacità di tante parrocchie ad attuare da sole la loro proposta pastorale. Qui si deve distinguere tra i gesti essenziali di cui ciascuna comunità non può rimanere priva e la risposta a istanze – in ambiti come carità, lavoro, sanità, scuola, cultura, giovani, famiglie, formazione, ecc. – in ordine alle quali non si potrà non lavorare insieme sul territorio più vasto, scoprire nuove ministerialità, far convergere i progetti. In questo cammino di collaborazione e corresponsabilità, la comunione tra sacerdoti, diaconi, religiosi e laici, e la loro disponibilità a lavorare insieme costituiscono la premessa necessaria di un modo nuovo di fare pastorale» (Conferenza Episcopale Italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale, 2004, n. 11).
Affidando a Maria quest’esperienza di incontro e conoscenza reciproca fra il Vescovo Giuseppe e la Sua Diocesi, le chiediamo infine: quale augurio vuole lasciare alla Comunità di Pontassieve affinché non dimentichi mai di essere luogo fecondo di speranza e di gioia ?
Vorrei ritornare al centro dell’annuncio della Visita pastorale, così come l’ho esplicitato nella nostra celebrazione di apertura, quando ho invitato a guardare oltre la persona del vescovo e a fare della Visita una occasione di rinnovato incontro con Gesù. Queste le mie parole: «Dietro alla presenza degli apostoli e dei loro successori si pone la persona stessa di Gesù, l’unico Pastore del gregge della Chiesa, che non abbandona i suoi discepoli, ma li cerca, li raduna, li cura con la sua parola e la sua grazia. La presenza di Gesù, a sua volta, è il segno della presenza di Dio, che non abbandona mai i suoi figli. Lo ricorda il vangelo di Luca con le parole poste in bocca a Zaccaria, che celebra la venuta del Salvatore come la visita di Dio: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo […]. Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Luca 1,68.78); e lo stesso vangelo esprime così la meraviglia e la lode del popolo per le parole e i gesti di Gesù: «Dio ha visitato il suo popolo» (Luca 7,16b). La visita di Dio, come presenza di comunione e di salvezza tra gli uomini, che culmina nella persona del suo Figlio fatto uomo, è la sorgente da cui la visita degli apostoli alle Chiese trae alimento di grazia e su di essa si modella. La nostra Visita avrà raggiunto il suo scopo se aiuterà tutti noi a sentire la presenza di Dio nella nostra vita». Questo è l’essenziale della vita cristiana: incontrare Dio nella persona del suo Figlio Gesù. Il mio augurio è che attraverso la Visita pastorale ciascuno di noi riesca a fare qualche passo in questo incontro.